Social media, non delle semplici piattaforme digitali

Posted By Luca Sciocchi on Dic 22, 2017 | 0 comments


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Introduzione

È ormai evidente che i social media sono diventati parte integrante della nostra vita quotidiana.

Miller insieme altri quattordici antropologi ha cercato di studiare l’interazione fra l’uomo e i social media. L’obiettivo dello studio non è quello di valutare se i social media abbiano una accezione puramente positiva o negativa, ma educare, fornendo tesi a favore di ciò che i social sono diventati in ogni luogo e le conseguenze che hanno apportato in questo.

I social media non dovrebbero essere visti semplicemente come piattaforme digitali sulle quali le persone pubblicano post, ma sono strumenti in cui l’attenzione si focalizza sui contenuti che sono stati pubblicati e le conseguenze che questi hanno comportato nella nostra vita.

Una conclusione dello studio è la ridefinizione del concetto di social media, come una “scalable sociality”. Questa definizione si basa su due scale: una che valuta misure che vanno da privato a pubblico e l’altra da un piccolo gruppo (costituito al più da due persone) fino al più grande (intero pubblico). La creazione di nuove piattaforme, e di conseguenza di nuovi social media, significa colmare lacune presenti lungo queste due scale, come ad esempio una maggiore tutela della privacy.

In realtà, ciò che è stato dimostrato è che i comportamenti tenuti sono strettamente correlati a norme e fattori locali, quindi dipendenti dalla città in cui si vive.

 

Metodo e approccio

Lo studio, iniziato il 29 Febbraio 2016, ha coinvolto nove antropologi che hanno trascorso quindici mesi in diverse comunità sparse in tutto il mondo: Cile, Brasile, Trinidad, Italia, Inghilterra, Turchia, India e Cina settentrionale e meridionale. Gli antropologi hanno interagito con persone di diversa estrazione sociale ed età, focalizzandosi sul ruolo che hanno i social media nella vita quotidiana delle persone.

L’analisi si è basata su un questionario somministrato a circa 1200 soggetti. Lo stesso affrontava ventisei argomenti: i social media determinano relazioni sempre più individualiste? Hanno degli effetti sull’istruzione? Contribuiscono alla disuguaglianza? Che impatto hanno sulla privacy? E sulla politica?  Queste sono solo alcuni degli interrogativi che i ricercatori si sono posti nell’affrontare questo studio.

Di seguito una breve analisi di alcune delle domande sopracitate attraverso esemplificazioni, tratte dallo studio di Miller e dei suoi collaboratori.

 

I social media distraggono dall’educazione e riducono le capacità sociali dei giovani?

Le risposte a questa domanda sono contrastanti: se nei Paesi dove c’è un limitato accesso all’istruzione, i social media vengono interpretati come un valido strumento di apprendimento, in altri assumono una connotazione negativa, ovvero vengono visti come elementi disturbatori.

In Brasile, ad esempio, YouTube è un importante fonte di apprendimento (Link). Un’analoga situazione è quella della Cina industriale. Contrariarmene al Brasile, la Turchia, la Cina rurale e in parte anche l’Italia vedono l’uso dei social come una distrazione dallo studio. Perché in parte in Italia? Nella ricerca si è osservato che nonostante i genitori incoraggino i figli ad essere attivi e presenti sui social network, questi ultimi vengono comunque visti come un impedimento alla formazione scolastica.

 

Verso l’individualismo? Forse no…

Molte persone pensano che l’uso dei social media e la continua evoluzione tecnologica porti all’individualismo a scapito del tempo trascorso “offline” con persone vere e non avatar virtuali. Dalla ricerca emerge che questa affermazione in alcuni paesi non risulta coincidere a verità: a volte sono proprio i social media a favorire la creazione di gruppi o a rafforzare gruppi già presenti nella vita reale.

Ad esempio, in Cile, dove molte persone lavorano spesso lontano da casa, i social media vengono utilizzati per rimanere in contatto con la propria famiglia, diventando così uno strumento per impedire l’individualismo. In Brasile, la comunicazione online permette a persone, che nella vita reale non si parlano, di diventare amici su Facebook e interagire su questa piattaforma. Un fattore che potrebbe incidere su questo deriva dall’appartenenza a culti differenti (Link).

Lo studio ha dimostrato che gli italiani non usano Facebook per consolidare le amicizie, bensì per intraprendere nuovi sistemi di socializzazione, non disponibili nella vita reale. “Facebook non offre tanto alla vita di comunità perché le persone hanno già molteplici modi di esprimerla offline. Al contrario, Facebook diventa importante quando risolve alcune questioni o diventa un buon modo di esprimere certe relazioni o quando le cose si mettono male, come nel caso di famiglie separate dal lavoro o dall’immigrazione o quando qualcuno con un altro grado di istruzione si sposta altrove”, spiega il ricercatore R. Nicolescu alla rivista Wired.

Tutti i meccanismi e comportamenti riscontrati durante la ricerca condotta dai quattordici antropologi sui temi affrontati nel progetto Why We Post sono riportati in una raccolta di undici volumi, scaricabili gratuitamente dal sito della London’s Global University (UCL). La UCL ha reso disponibile anche un corso incentrato sull’uso dei social media.

 

Per saperne di più:

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